Racconto

FUOCO DI LARICE

Gli spiriti dell’aria scendono dal Monte Colombana sul far della sera e soffiano sul fuoco di fili secchi di carice e sterco di asini e vacche, le cui orme fresche raccontano di un transito recente.

testo e foto di Sara Invernizzi  / Bergamo

05/03/2023
4 min
Una notte nel pascolo alpino ha il potere di riportarmi in un tempo diverso. Una sola notte che nella memoria diventa un flusso.

Gli spiriti dell’aria scendono dal Monte Colombana sul far della sera e soffiano sul fuoco di fili secchi di carice e sterco di asini e vacche, le cui orme fresche, ancora impresse nella fanghiglia nei dintorni della fontana, raccontano di un transito recente. Ora le sento lontane, forse verso la Valle della Pietra. Lo scampanellare si perde fluttuando indeciso, sommerso a tratti dal vociare forte delle folate di vento, che mi sospingono in avanti facendomi allontanare dalla fonte gelida, luogo di ristoro dopo la ripida salita e la discesa nel sole lungo il crinale selvaggio, tappezzato di arbusti di rododendri e mirtilli, dove si nascondono i galli forcelli.

E ancor più in alto, verso il sentiero esposto a Nord – che per anni abbiamo cercato sempre più in basso, e che per caso quest’estate abbiamo intuito leggendo la traccia incerta al di sotto dei dirupi – sui paglioni compatti, gli spiriti dell’acqua scivolano sui paglioni e mi succhiano dalle dita il succo dei mirtilli, che raccolgo a gran copia all’ombra dei radi larici. Mirtilli scuri e sanguigni, aspri, che fanno stringere gli occhi già socchiusi nel sole, schioccare le labbra secche – ma poi trovammo il modo di aprire la sorgente sul crinale e far sgorgare un getto così limpido e trasparente, misterioso. Da dove viene l’acqua che si trova in cima alle montagne? Acqua cristallina, leggera e scivolosa, raccolta nella borraccia e che diventerà il nostro tè aromatizzato con il timo serpillo che striscia sulle pietre incise di croci.

Cammino scalza per meglio sentire con le dita le singole fibre dell’erba olina. Approdo su sassi stabili, che mi sostengono e sono lavorati dal tempo, scolpiti e levigati: vorrei saperne la storia come se fossero opere d’arte. Ma il loro senso è lì, condensato nella pietra solo apparentemente immobile ed eterna, eppure malleabile e fluida. Al confine del pascolo sono i massi più grandi, informi, spezzati e dalle morfologie complesse e, sotto i ripari, i resti di caselli – dove conservare al fresco i formaggi, o dove far riparare le capre – luoghi oscuri che sanno di muschio e muffe, odore di terra ferrigna. Oscurità segrete, umane e naturali. Si trova una trave, un chiodo, una porta divelta dove pensavi di trovare un masso muschioso, una pigna, un ramo spezzato. Là, dove crederesti possa esserci stata frequentazione umana trovi solo il giaciglio dei camosci, terra pestata e impronte di zoccoli, le fatte dei rapaci o intrichi ancestrali di felci.

Cammino scalza per meglio sentire con le dita le singole fibre dell’erba olina. Approdo su sassi stabili, che mi sostengono e sono lavorati dal tempo, scolpiti e levigati.

Nelle ombre che si annidano nelle frane antiche, tra i massi accatastati in bilico, o ben assestati e cementati da muschi e licheni, si annida lo spirito della terra, che mi osserva con i suoi occhi neri e umidi. Mi guarda anche dai buchi scavati dalle marmotte, sbadiglia nell’oscurità e spalanca la bocca vorace di luce, catalizzatrice di curiosità.

Le pietre sono tante e in forme e in positure differenti. Stupiscono nei mucchi da spietramento, dove l’azione paziente di qualche gigante, forse un ciclope che con l’unico occhio ben aperto curava gli armenti e al contempo trovava i macigni sparpagliati da chissà quale moto tellurico, quale evento catastrofico franoso, quale disfacimento e disgregamento avvenuto in ere geologiche, quale azione levigatrice di ghiacciai ostinati nell’incedere, ritrosi nel ritirarsi. Esseri mitologici e fortissimi che hanno spostato per i pendii, seguendo chissà quale tragitto (discendente, obliquo?), dei massi di dimensioni spropositate, ammucchiandoli su altrettanti massi derelitti, troppo grandi e pesanti, impossibili da spostare per mezzo di mani terrene (considerando i giganti e i ciclopi come esseri in carne ed ossa). Restano nei pascoli queste montagne di pietre, queste piramidi crollate, questi detriti, relitti, simboli di forze ancestrali, emblemi della pazienza e della volontà, della determinazione e della necessità. Necessità che certamente si è fatta virtù portentosa.

Forse, posso immaginare un Salvadéch sradicare una pianta di larice e usarla come pertica per smuovere dal terreno nel quale è infisso da millenni un masso di gneiss granitoidi, come una vertebra troppo sporgente, come un osso calcificato male di questa struttura corporea ed imperfetta che è la terra. Tergendosi il sudore con una ciocca dei lunghi capelli, o forse del vello che interamente lo ricopre (escluse le ginocchia), il Salvadéch si sarà poi diretto verso un mucchio di pietre adibito a focolare, in un caalèch (una casa-letto litica, dal tetto smontabile) su cui, con gesti sapienti, avrà appoggiato la caldaia contenente il latte delle sue vacche e delle sue capre (o forse di qualche capriolo femmina, indomita creatura abitante delle selve di conifere e delle radure quiete dove si snodano ruscelli silenziosi).

Fuoco di larice che ha sempre fame e consuma famelico ciò che gli gettiamo in pasto.

E, chinandosi con la faccia barbuta, sfiorando con le labbra screpolate la terra battuta dai suoi piedi scalzi e duri, avrà soffiato su un debole fuoco di fili di carice, ramoscelli di larice e sterpi di rododendro, ravvivando la fiamma, che avrà lambito arzilla il fondo fuligginoso della caldaia in rame.

E attendendo un tempo sentito con la forza dell’abitudine, immergendo le falangi callose nel latte caldo, sapendo con precisione la giusta temperatura, avrà versato nel latte una quantità non pesata ma giusta, di caglio di vitello. E ancora l’attesa della formazione della cagliata e allora, immergendo nuovamente le dita unite a formare una conca, il liquido bianco e rappreso sarà scivolato nell’incavo della mano e con un gesto delicatissimo, così poetico, premendo con il pollice rimasto fuori dal latte, avrà visto la cagliata aprirsi, spezzando la curva perfetta, la superficie immota e leggermente riflettente il moto ondoso delle nuvole. Per secoli qualche uomo avrà ripreso il gesto del Salvadéch, testando la consistenza della cagliata prima di cominciare a romperla in frammenti sempre più piccoli, separandola dal siero grasso e giallognolo.

Talvolta, salendo per i paglioni dei pascoli alti, nel sole, le erbe hanno l’odore della cagliata calda.

In questa notte di fine estate però nel pascolo non ci sono i ciclopi o gli uomini selvatici, lo spirito del fuoco danza con me e io lo nutro con rami di larice, fiori di timo e pigne. Le patate novelle cuociono lente nella cenere, mentre il formaggio grasso si scioglie sul pane lasciato abbrustolire su una pietra sottile e liscia. Ci fanno da scranni dei massi che ho trovato crollati all’interno del caalèch. Il luogo sembra abbandonato da sempre; eppure, vissuto fino al giorno prima. Il tempo umano non ha importanza dinanzi all’evidenza delle pietre e delle intemperie. Solo i legni di antiche travi in conifera, ingrigiti, quasi argentati, dai nodi ben visibili e dai vecchi chiodi enormi contorti e sporgenti, rivelano un tempo non prossimo, ma quanto lontano è impossibile dire. Non so contare le ere e le ore: mi scivolano addosso, mi lambiscono come l’acqua oleosa e rigenerante della fontana, come la fiamma guizzante e allegra del fuoco. Fuoco di larice che ha sempre fame e consuma famelico ciò che gli gettiamo in pasto.

Sulle braci ardenti, nell’oscurità, un astro splendente rischiara di un color mattone la notte. Sembra un sole, ma è la luna.

Sara Invernizzi

Sara Invernizzi

Tra anfratti rocciosi, borghi di crinale e nuove conurbazioni dell’arco orobico, cerco di “leggere” il territorio come se fosse un palinsesto, ricco di stratificazioni di narrazioni. Dai sentieri che percorro e dalle storie antiche, traggo ispirazione per nuove riscritture.


Il mio blog | Sono blogger di Altitudini da più di un anno. E' il luogo dove lascio depositare le storie a cui tengo maggiormente, come preziose concrezioni nelle profondità di una grotta e, come accade nelle caverne, anche quando mi perdo tra le storie di Altitudini sono felice.
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1 commenti:

  1. Gian Andrea ha detto:

    Atmosfera incantata, rarefatta, onirica, condita con profumo di muschio umido. Ti vedo fusa con la natura, prendere forma uscendo da una pianta, una fonte, un capriolo. L’Homo Selvadego, dipinto nell’antico studio notarile di Sacco, ti è un complice accompagnatore nel girovagare tra i boschi. La natura è mia Amica, Amante, Maestra.
    Prediligo letture “reattive” (emozione > reazione), ma questo racconto mi ha coinvolto. Viva la Natura, Gian Andrea

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