Racconto

LA RIVA DELL’AZZURRO

Il nome della bambina era Nilüfer, che in persiano significa “riva dell’azzurro”, il fiore che cresce sul ciglio dei fiumi. / Nilüfer non aveva mai visto la neve e neppure la montagna. / L'aria era gelida, profumava di incenso, di canti antichi e di Natale.

testo di Laura Bortot

Foto di Kostiantyn Li su Unsplash
24/12/2024
8 min

Il Natale di Altitudini 2024

Quest’anno per festeggiare il Natale abbiamo chiesto ad una cara autrice di altitudini di scrivere un racconto inedito che regaliamo a tutti gli amici di altitudini.
Tutto nelle prossime righe ci parla di un giorno speciale che è custodito nell’infanzia di molti. Siamo così ammaliati dalle chimere luminose di questi giorni di festa, così distratti dalle musichette che ci accompagnano nel pellegrinaggio consumistico, così angosciati dall’orizzonte scuro delle guerre che ci siamo dimenticati proprio quel Natale, quello della piccola Nilüfer, il nostro.
Che gli auguri di altitudini, gli sguardi della bambina protagonista del racconto, la bella montagna che sta dentro di noi, che quello che a voi vi è più caro, vi faccia ricordare il Natale.
Buon Natale.
la Redazione di altitudini.it

Prese per mano quella bambina dagli occhi scuri e si avviò lungo la traccia ripida e obliqua che tagliava il prato.

Non era un sentiero battuto, era solo una fuga di orme che bucherellavano la neve. A seconda delle dimensioni delle scarpe o del peso dei corpi il velo bianco aveva ceduto in smottamenti più o meno marcati. La luna della sua infanzia li illuminava, e dove l’incavo era profondo la neve perdeva compattezza e si schiariva in trasparenze azzurre.

Il nome della bambina era Nilüfer, che in persiano significa “riva dell’azzurro”, e per contiguità visiva anche loto, il fiore che cresce sul ciglio dei fiumi. Era una bimba silenziosa, Nilüfer, ogni giorno raccoglieva mucchietti di parole italiane che metteva da parte come fossero pietre preziose. Di tanto in tanto infilava la manina in tasca e prendeva la parola che le sembrava più adatta alla situazione. Una parola sola, una alla volta. E quella parola proiettava un raggio di luce sul momento presente, ma lasciava dietro di sé anche un riverbero esile, la traccia di un passato, di un sentire bambino con altre radici.

Nilüfer non aveva mai visto la neve, e neppure la montagna. Il nero denso del suo sguardo aveva rotto gli argini quando era scesa dalla macchina e lei l’aveva presa in braccio, senza parlare. L’aveva immersa nel paesaggio bianco e le aveva appoggiato la mano sulla guancia avvicinandola dolcemente a sé. Il piccolo viso si era abbandonato per un secondo al calore della pelle, poi di colpo si era raddrizzato e le lunghe ciglia nere avevano disegnato uno sguardo vigile, rapito. Lei aveva aspettato ancora, per darle tempo, e spazio.

La “riva dell’azzurro”, il margine quasi impercettibile di un mondo fatto di acqua, petali delicati, riflessi e fili di nebbia ingrigiti dall’alba, aveva accolto quasi per magia sfumature lontane di una natura nordica, e sagome di rilievi impensabili fino a poco tempo prima.

La meraviglia della bambina aveva asciugato ogni angolo e piega dello scorcio che avevano davanti, e solo allora lei le aveva dato tre parole per chiamare l’emozione di quell’attimo, e per poterla richiamare anche in altri momenti, come capita quando ci si appropria di un paesaggio che rende felici. Per lei quel prato bianco sotto la luna era una scheggia d’infinito. Neve, le sussurrò. Montagna, aggiunse indicando il profilo più scuro del Sassolungo e del Sassopiatto. Cielo, e sollevò in alto la mano distendendo le dita.

Nilüfer rimase in silenzio, com’era nella sua indole, ma lo sguardo si posò su quello della mamma, che forse non capiva ancora di poter chiamare mamma, perché non aveva un pensiero in grado di concepire il passaggio tra il prima e il dopo, tra l’assenza di amore e la sua presenza fisica, o di definire i confini di quel nuovo guscio di esistenza che le era stato donato. Ma dopo averle visto in volto il sorriso, lo sguardo della bambina era tornato sui tre azzurri che si erano aggiunti al colore e all’ordito del suo nome: neve, montagna, cielo. La “riva dell’azzurro”, il margine quasi impercettibile di un mondo fatto di acqua, petali delicati, riflessi e fili di nebbia ingrigiti dall’alba, aveva accolto quasi per magia sfumature lontane di una natura nordica, e sagome di rilievi impensabili fino a poco tempo prima.

Mise a terra la bambina perché i piedini sentissero la consistenza della neve. Nilüfer valutò per un attimo il nuovo punto di osservazione e poi si chinò a toccarla. Con due dita ne prese un pezzetto, ma il tempo di avvicinarlo alla bocca e la neve era già scomparsa. La delusione si tratteggiò sulle ciglia scure. Sembrò persistere, in realtà durò solo un battito d’ali, perché la bambina fece i suoi primi passi sulla distesa bianca, prima piano piano, poi di corsa. Infine si girò con un sorriso di felicità. Eccola, pensò lei. Ecco la felicità di quando venivo qui da piccola, e la sera della Vigilia andavamo alla messa di mezzanotte partendo a piedi da casa e risalendo quello stesso prato, per raggiungere la chiesa appoggiata sul fianco della montagna, il penultimo paesino prima che la valle si chiudesse sotto il ghiacciaio, oggi ormai una lingua solitaria e anacronistica.

Quelle sere del 24 dicembre lei aveva sonno, lo ricordava bene, era difficile lasciare il calore della casa e infilarsi le muffole di lana e il berretto – non sopportava i berretti, ma era obbligata a metterseli. Poi però gli scarponcini entravano nei buchi della neve, alcuni così profondi che la gamba scompariva, e il divertimento era passare da un buco all’altro facendo i passi di un gigante, e infilare il piede giusto giusto al centro, in modo da non smuovere neanche un grammo di polvere bianca. Se sbagliava a infilarlo e provocava slavine o frane, il gioco prevedeva che dovesse tornare indietro di un passo.

L’aria era gelida, quelle sere, le stelle decoravano il cielo di Natale e la luna rischiarava il sentiero. Ma le ombre c’erano, erano lunghe e spettrali, arrivavano dagli alberi ai margini del bosco e come artigli neri minacciavano di afferrarla e portarla via. E la montagna sopra la sua testa era talmente alta da sembrare l’onda di un maremoto notturno, quindi ancora più spaventoso. Lo sguardo doveva rimanere a terra, se avesse superato la prova delle orme sarebbe stata salva.

La chiesa aveva un piccolo cimitero, le lapidi storte e infreddolite non le facevano paura, erano dentro lo spazio protetto di un muro di cinta, e i lumini indicavano la strada fino alla porta. Davanti al sagrato bisognava sbattere un po’ le scarpe per non portare la neve all’interno. E poi ci si sedeva su panche di legno durissimo, ma l’aria profumava di incenso, di canti antichi e di Natale. E lei dopo un po’ si addormentava, mentre la voce del prete sfumava in un brusio via via più lontano e le candele si dissolvevano in una luce calda e indistinta.

Nilüfer le strinse la mano, aveva tenuto il guantino destro ma aveva voluto togliere il sinistro, quello delle piccole dita intrecciate alla mano della mamma. La neve scricchiolava, erano quasi arrivate alla chiesa. Lei non sapeva se sarebbe voluta entrare, temeva di trovarsi di fronte qualcosa di completamente diverso rispetto ai suoi ricordi di bambina. Temeva le dimensioni, il rendersi conto che magari in realtà era tutto angusto, minuto, e non immenso e solenne com’era allora.

Nilüfer si fermò. Una folata di vento freddo l’aveva scossa per un attimo. Guardò in su, poi abbassò lo sguardo sulla neve e infine tornò a sollevarlo verso la montagna. Rimase come incantata. I pensieri di un bambino sono un territorio inviolabile, si disse lei, e ancora di più lo sono le emozioni, che esigono un arco di tempo, un orizzonte, un’infinita dolcezza. Perché in quei momenti si annodano i fili sottili dell’anima.

Nilüfer guardò la mamma e pronunciò la parola che aveva scelto per quel momento: Blu.

Foto di Mike Kotsch su Unsplash
Laura Bortot

Laura Bortot

Amo le montagne e amo le parole. La montagna mi insegna a usare le parole come segnavia. Ogni tanto sono le parole ad aprire una via.
Sono traduttrice letteraria: cammino su due versanti, la lingua tedesca e la lingua italiana, vegetazioni diverse, scorci diversi. Ogni giorno attraverso felice questi territori.


Il mio blog | altitudini.it è la mia rivista digitale: mi fa viaggiare, camminare. In altitudini la vita e la montagna nutrono la scrittura e la scrittura lascia un segno nella vita e nella montagna.
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