Racconto

#62
LA VIRGOLA E IL VUOTO

l libro è tutto spiegazzato, usurato da molti occhi e mani. Non ne avevo mai sentito parlare, prima, e ha un titolo un po’ così, che dice tutto e niente.

testo e illustrazioni di Alice Martinelli  / Livigno

26/01/2022
6 min
Marco_Rossignoli_014

La virgola e il vuoto

di Alice Martinelli

Il libro è tutto spiegazzato, usurato da molti occhi e mani. Non ne avevo mai sentito parlare, prima, e ha un titolo un po’ così, che dice tutto e niente.

La copertina ha il colore sporco della polvere, con un disegno a pennino sottile di una roccia rovesciata.
Dalla finestra entra il buio del tardo pomeriggio, il cielo sfuma nella carta da zucchero, il paese sotto di me brilla in un perenne avvento. E invece è gennaio, non c’è nulla da festeggiare ormai, con l’incertezza che ci ingoia i programmi e i dubbi su chi sta dalla parte giusta o meno.
Ho camminato sul sentiero di neve ben battuta, senza ciaspole né sci, perché sono molti giorni che non nevica. Il ghiaccio ha imprigionato le impronte di chi è passato prima di me, insieme agli aghi dei larici scrollati dal vento. Sono sola, e ho voglia di camminare, di leggere e di accendermi un fuoco.
Una pausa, uno scampolo dai bordi sfilacciati perché l’ho strappato in fretta e furia dalle incombenze di ogni giorno.

Il piccolo rifugio dei pastori l’ho trovato abbastanza pulito, e ne sono contenta. Ci sono dei ciocchi di legna un po’ storti, accatastati vicino alla stufa, dei fiammiferi lunghi e un quotidiano che risale all’estate, praticamente secoli fa. Appallottolo un pochino la carta nello sportello scuro, ci sistemo sopra i rametti e un ciocco scheggiato.
Accendo il fuoco.
Per un attimo rimango a guardare le piccole fiamme che ballano fra i ramoscelli fosforescenti, poi chiudo lo sportello, mi sistemo sulla panca ed estraggo il libro. Non l’avrei mai scelto senza suggerimenti, ma mi fido dei consigli di chi sa. Quindi, con la luce della frontale puntata sulla carta ingrigita, inizio a leggere.
All’inizio è difficile. Il linguaggio e i concetti sono astratti, densi, le parole si accatastano fra loro, echi di filosofia, di scienza, di geometria a cui non riesco ad appigliarmi con sicurezza. Le frasi sono pietre instabili, scolpite quasi un secolo fa.
Un personaggio bizzarro, un esploratore che decide di cercare la montagna più alta del mondo, più alta dell’Everest, in un continente sconosciuto ma che esiste, aldilà o dentro l’orizzonte, in uno spiraglio curvo. Altri personaggi che lo seguono, preparano la spedizione, raccontano e si raccontano, inventano e sognano. Partono, lasciando tutto, ed è l’Impossibile.

Le ore vengono sfogliate come le pagine porose del racconto.
Il silenzio del rifugio mi fa compagnia, il tepore si disegna sulla finestrella, trasformandosi in pizzo di ghiaccio.
Devo tornare a casa.
Prima devo finire questo libro.
Ma il racconto si interrompe con una virgola, con la spedizione che non è che all’inizio.

“Il silenzio del rifugio mi fa compagnia, il tepore si disegna sulla finestrella, trasformandosi in pizzo di ghiaccio.“

Cono di luce

Sbatto le palpebre sopra la luce fredda della frontale. Non posso crederci. Sapevo che il racconto non era finito, che l’autore lo aveva lasciato incompiuto, ma mai, mai mi sarei immaginata una sospensione così brusca, dal sapore di beffa. Non un punto, bensì una virgola, uno sbuffo di inchiostro nero, fra un periodo e l’altro.
Chiudo il libro, appoggiandolo con forza sul tavolaccio di legno.
Non si fa, così.
Non è educato.
Un lettore non può essere sedotto, accompagnato su un continente sconosciuto e meraviglioso, illuso con descrizioni perfette che quasi gli sembra di calpestarlo per davvero, quel pascolo di erba bagnata, per poi essere abbandonato così, brutalmente.

Non mi racconti la scalata vera e propria, monsieur Daumal?
Come avete fatto con l’aria rarefatta delle terre alte?
I disegni di Miss Pancake, io li voglio vedere. E dopo la cima? Siete tornati a casa o siete rimasti sulla montagna? Che pena ulteriore ha dovuto scontare l’uccisore del vecchio toporagno? E quanti peradam avete trovato, lassù?
Il calore della stufa sta lentamente svanendo, non voglio sprecare troppa legna. Lascio spegnere il fuoco, tra poco devo rimettermi in cammino. Sono irritata, anche se non vorrei ammetterlo. Bevo un goccio di tè caldo dal thermos, è il primo sorso da quando ho iniziato la lettura. Per un attimo rimango a fissare i nodi del legno sulle pareti, tanti occhi e facce dai tratti sfumati che sembrano osservarmi.
Poi riapro il libro, scorro le pagine, trattengo un respiro.
Dopo, dopo la virgola e dopo il vuoto lasciato, ci sono delle note dell’autore, ritrovate dopo la sua morte, e un lungo e complicato saggio che leggo con avidità, cercando di carpire qualcosa di più su quella storia assurda e stupefacente.

René Daumal è nato nelle Ardenne, nel primo decennio del ventesimo secolo. Era solo un bambino, quando su questa regione fitta di boschi si è abbattuta una delle più sanguinose battaglie della Prima Guerra Mondiale: chissà se ricordava qualcosa di quell’orrore, o se fosse scampato alla vista di quel macello.
Da adulto, abbandona le colline e i boschi per andare a Parigi, e negli Stati Uniti. Studia, scrive, esplora, sposa una donna dai capelli lunghissimi e gli occhi gonfi, diventa filosofo, poeta e studioso di una delle lingue più antiche dell’umanità, il sanscrito.
Per scrivere il racconto che ho consumato in poche ore di un tardo pomeriggio di gennaio, Daumal ci ha messo tanti, tanti anni.

Ogni parola è stata soppesata con cura, dalla sua penna di poeta e traduttore. Da giovane aveva sperimentato molte, tantissime cose, tra cui l’asfissia, il privarsi d’aria fino a quasi perdere i sensi, per avvicinarsi tanto più possibile alla morte per poi raccontarla. Doveva essere una persona alquanto bizzarra, questo è certo.
Tanto quanto il suo pensiero è contorto quando descrive teorie e filosofie, tanto le cose che scrive sull’andare in montagna sono immediate e incisive.
Come se mettere un piede dopo l’altro su un pendio gli rischiarasse la penna, e quindi i pensieri. Dev’essere così, che funziona.
Leggo tutto, fino all’ultima riga, mentre le stelle limpide si accendono nel cielo freddo.

“Tanto quanto il suo pensiero è contorto quando descrive teorie e filosofie, tanto le cose che scrive sull’andare in montagna sono immediate e incisive.“

Renè (colonna di fumo)

Tu hodie

Non voglio lasciare René Daumal e il suo sogno del monte Analogo.
La virgola, la frase interrotta dal respiro smozzicato (morirà di un’affezione polmonare: per uno che ha trattenuto il fiato per avvicinarsi il più possibile al mistero dell’aldilà, è una fine dal sapore amarissimo).
La sua domanda, che avrebbe dovuto essere il capitolo finale: “E voi, che cosa cercate?”.
Eh, bella domanda.

Rimetto il libro nello zaino, rassetto la cenere sul pavimento. Apro la porta del rifugio, il gelo mi infilza le narici. Seguo per pochi passi il sentiero nel bosco, raccolgo qualche ramo di un albero morto, con gli scarponi li spacco in piccoli pezzetti che carico sul braccio. Anche se è freddo e morto da molto tempo, riesco ancora a sentire l’odore del legno e della resina intrappolata nelle fibre.
Torno nel rifugio, che ormai è tornato tiepido. Accatasto i rami vicino alla stufa, con cura.
È una regola sacrosanta: lascia legna per il fuoco di chi arriverà dopo di te. Perché verrà sempre qualcuno, dopo di te.

Mi carico lo zaino sulle spalle ed esco, chiudendo la porta.
Il cielo ha un chiarore pallido, dietro il profilo morbido delle montagne. Sta per sorgere la luna, e le stelle ne vengono ingoiate, una dopo l’altra.
Seguo il sentiero ben battuto, un passo dopo l’altro, e sto attenta a non scivolare. Il bosco è così silenzioso, intorno a me, la neve scintilla e il respiro si annuvola davanti agli occhi, mentre scendo verso il paese luccicoso.
La luna sbuca, alla fine, ed è così tonda che non serve più la luce della lampada, così la spengo, sbatto le palpebre e sento le pupille allargarsi come pozze scure.
Io non lo so, cosa sto cercando, Monsieur Daumal.
O forse sì.
A pensarci bene, lo so.
Adesso, ora, io cerco il sentiero, la vista nel buio che buio non è, il respiro regolare, il calore che si disperde lontano dalla pelle scoperta, le impronte ghiacciate, le ore di solitudine, il conforto di un libro e del fuoco.
Cerco il ritorno a casa.
E la fine dell’inverno, che è in agguato e dura sempre troppo, quassù.

Ecco quel che cerco, oggi.
Grazie per averlo chiesto, alla fine è proprio un uomo cortese, lei.
Grazie per la filosofia, per le descrizioni, per le storie antiche, Monsieur Daumal.
E grazie, anche, per quel vuoto arrivato all’improvviso.
Io lo riempio, proviamo in tanti a riempirlo, con le parole e con i disegni, con le voci e le immagini, ma lei non può sentirci, non più.
Forse.
Mi dispiace per quella virgola, Monsieur Daumal: sarei stata in vostra compagnia ancora per un bel po’.
E, comunque, grazie.

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Alice Martinelli

Alice Martinelli

Sono Alice, vivo a Livigno. Scrivo, leggo, disegno, lavoro in bilico fra la Storia e le storie, e mi piace un sacco. Sono in debito profondo con Atitudini.it, o meglio ho profonda gratitudine per questo posto e per i suoi abitanti.


Il mio blog | Anche se non è molto aggiornato, TracciAlieve è il blog su cui provo a intrecciare le mie varie passioni: il disegno, la scrittura, la natura, la storia.
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4 commenti:

  1. Marco Rossignoli Marco Rossignoli ha detto:

    Ciao Alice, ti ho letto volentieri e mi hai fatto pensare.

    1. Alice Alice ha detto:

      Ciao Marco, ti ringrazio molto. Il Monte Analogo mi ha travolto. Un abbraccio!

  2. Chiara Pezzoni Chiara Pezzoni ha detto:

    Scrittura allo stesso tempo fresca e profonda; mi sono sentita lì anch’io, dentro il rifugio dei pastori e avvolta dall’atmosfera del bosco, grazie

    1. Alice Alice ha detto:

      Grazie Chiara per la tua lettura!

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