#6 – Valturcana, Alpago, Belluno
Passo ormai da 54 anni lungo la vecchia strada della Valturcana, una piccola e quasi disabitata valle che è stata abbandonata negli anni successivi all’alluvione del 1966, è nella conca dell’Alpago, in provincia di Belluno; la strada sale tutta curve tra borghi e vecchie stalle dall’abitato di Cornei a quello di Tambre, tra i 500 e i 900 metri sul livello del mare. In Valturcana ho la casa vecchia dove sono nato e che cerco di tenere in piedi, due pezzetti di prato ripido da falciare, un boschetto piantato da mio padre dove i frassini svettano diritti verso il cielo.
Oggi, in un gennaio che non sembra nemmeno un mese d’inverno, mi sono fermato a guardare una ròsta, un piccolo torrentello regimentato, lo stesso che osservavo quando ero bambino e ci passavo a piedi per raggiungere una stalla più a monte con mio nonno, mia madre e i miei cugini. Avevamo sempre un attrezzo in spalla o uno zaino con qualcosa per il pranzo. Magari ci fermavamo un momento per prendere fiato vicino alla fontana: non era una vita facile fare i contadini sui prati ripidi, cercare di ricavare qualcosa dal lavoro delle braccia, dalle bestie in stalla. In ogni caso tutti dovevano darsi da fare, per amore o per forza, anche i bambini, appena riuscivano a tenere in mano un attrezzo, poniamo il rastrello, che è meno pericoloso della forca o della falce.
La prima cosa che ho notato è che l’acqua piovana scende da secoli, nelle stesse piccole vallette: in certi periodi dell’anno sono asciutte e sembrano quasi inutili, mentre quando piove forte fanno impressione e l’acqua arriva alla strada. Mi sono detto che quella buona norma di lasciare liberi gli alvei, di non interrarli e di non costruirci vicino l’abbiamo sempre saputa, ed è curioso che quando accade qualche tragedia ci vengano ricordate queste norme del buon senso contadino.
La seconda cosa che ho visto è una targa: Corpo Forestale 1952. In anni odierni, quelli del localismo esasperato (per cui ogni problema sembra venire da Roma o dall’Europa) vedere quel manufatto dello Stato, proprio dell’amministrazione pubblica, mi ha fatto un certo effetto. Lo Stato ha finanziato l’opera di regimentazione delle acque in una povera valle delle Prealpi. Probabilmente dentro quel piccolo lavoro degli anni ’50 ci sono delle Lire che venivano da chissà quale lavoratore, da chissà quale posto d’Italia attraverso le tasse.
La terza cosa che ho visto, osservando la ròsta, non è un ragionamento ma un insegnamento: le persone che vivono a ridosso di questa piccola acqua hanno cura dei loro prati, degli alberi, delle stalle. Di più, queste persone hanno cura di chi sta a valle e ogni giorno hanno l’occhio attento e la mano laboriosa per governare la terra falciando i prati, liberando le cunette. E non lo fanno da un giorno o da un anno, ma da secoli e perfino oggi, senza che nessuno dica loro grazie.
Il “quadro” che ho visto in Valturcana mi ha mostrato queste tre cose: assecondare sempre la natura della montagna, sentirla patrimonio di tutti e fare ognuno il proprio dovere.
E c’è una cosa personale, una specie di desiderio impossibile: se potessi tornare indietro di 40 anni e dire a mio nonno che ho capito solo di recente quanto era importante quello che facevamo allora, anche controvoglia e bestemmiando, sarei felice. Perché la montagna, come i figli e i nipoti, è di chi ne ha cura.